Sempre più italiani si orientano su prodotti con certificazioni etiche e ambientali. Per il 2017 nel nostro Paese sono stati spesi 130 milioni di euro che hanno generato per i produttori un premio di 1,6 miliardi, di cui 334 milioni per il caffè. I dati si riferiscono alla grande distribuzione, ma anche nel canale horeca si evidenzia l’interesse del consumatore nei confronti di una “tazzina consapevole” e certificata. Le certificazioni del caffè sostenibile hanno preso il via da circa vent’anni, promosse da organizzazioni no profit. Le principali sul mercato italiano sono varie, prima fra tutte Fairtrade ai cui registri possono iscriversi solo le organizzazione di piccoli coltivatori; la certificazione interessa circa 730mila produttori in 30 Paesi e copre i tre pilastri della sostenibilità: economica, sociale e ambientale; i produttori investono almeno il 25% del Premium nel miglioramento della qualità e della produttività. C’è poi la certificazione Organic, che ha un valore ambientale e attesta che il caffè proviene da agricoltura sostenibile, il suo fine è lo sviluppo di pratiche agricole e di trasformazione biologiche. Al produttore è riconosciuto un compenso superiore rispetto alla media del mercato. Ancora: il marchio Utz, che garantisce un caffè coltivato in piantagioni in cui si fa un uso appropriato di sostanze agro-chimiche e dove i lavoratori vedono tutelati i propri diritti. Infine, Rainforest Alliance, la cui mission è conservare la biodiversità e garantire mezzi di sussistenza sostenibili. La certificazione è conferita a piantagioni che assicurano la protezione dell’habitat animale e vegetale, nonché un pagamento equo ai coltivatori.
La tazzina ideale? Buona ed etica
Sempre più ai beni di consumo sono richieste garanzie etiche e ambientali. Una tendenza a cui il caffè al bar non si sottrae
Sempre più ai beni di consumo sono richieste garanzie etiche e ambientali. Una tendenza a cui il caffè al bar non si sottrae